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ProPublica: il Pulitzer al giornalismo di inchiesta on line

L’informazione light  dilaga, soprattutto in televisione. Servizi sugli occhiali alla moda, sulle amanti dei Vip,  sul regalo da acquistare per san Valentino, eccetera. Le inchieste sono rarefatte, come l’atmosfera su Marte. Qualche quotidiano, un paio di settimanali, alcune rubriche tv che vanno in onda in orari impossibili. Gli editori sono impuri, non hanno soldi e voglia di investire nel giornalismo d’inchiesta. Per fortuna – altrove – ci sono i mecenati. La Fondazione Sandler, ad esempio. Da qualche anno finanzia ProPublica, un gruppo di reporter sul web nato tre anni fa nella tradizione del grande giornalismo investigativo alla Carl Bernstein e Bob Woodward. Quest’anno il Pulitzer è andato a loro. E’ la prima volta per il giornalismo on line.

Ho scoperto ProPublica due anni fa. Il loro motto può sembrare quasi eversivo, in Italia: Journalism in the public interest. Il Pulitzer è arrivato grazie a un’inchiesta sui giorni drammatici del 2005, quando New Orleans fu messa in ginocchio dall’uragano Katrina. L’inchiesta è stata pubblicata dal magazine del New York Times.

Già, perché ProPublica non vende i suoi reportage. Li propone ai giornali, che scelgono se pubblicarli o meno. La mission è chiara: i cittadini hanno bisogno di sapere. Il giornalismo investigativo è indispensabile. Se le inchieste non le fate voi, ecco qui le nostre, già pronte.

Il logo del premio Pulitzer

Nella redazione di ProPublica lavorano trentadue giornalisti, guidati dall’ex direttore del Wall Street Journal, Paul Steiger. I reporter lavorano senza pregiudizi e senza condizionamenti. L’unica analogia italiana che mi viene in mente è Report, di Milena Gabanelli.

Pino Bruno

Scrivo per passione e per dovere, sono direttore di Tom's Hardware Italy, ho fatto il giornalista all'Ansa e alla Rai e scrivo di digital life per Mondadori Informatica e Sperling&Kupfer

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