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Globish: linguaggio universale prossimo venturo

Che ci piaccia o no, il globish marcia rapidamente per affermarsi come linguaggio universale prossimo venturo. Vocabolario stringato – 1500 parole – e grammatica semplificata. Non è e non sarà la lingua dei colti, ma quella  dei più, essenziale per comprendersi, insufficiente per ragionare. Una sorta di esperanto globale e minimale, veicolato dalla rete, Stele di Rosetta delle comunità digitali. Scrive del globish Robert McCrum, giornalista del Guardian, in un articolo pubblicato qualche giorno fa e tradotto da PressEurop.  Ve lo propongo suggerendovi la lettura incrociata di un intervento di Vittorio Messori sul Corriere della Sera del 20 agosto 2009, a proposito di italiano e dialetti.

Ecco l’articolo di Robert McCrum:

“Cosa è il globish? Per quanto mi riguarda, tutto è cominciato nel 2005. Il giornale danese Jyllands Posten aveva appena pubblicato una serie di vignette satiriche sul profeta Maometto. Nella rivolta che ne seguì morirono almeno 139 persone. All’epoca ci fu una bizzarra protesta di alcuni fondamentalisti musulmani davanti all’ambasciata danese di Londra. Gridando in inglese, i dimostranti esponevano cartelli, anch’essi in inglese, con slogan come “Attenti vichinghi!”, “Morte a chi offende l’Islam” e “Abbasso la libertà d’espressione”.

Questa collisione tra il Corano e i Monty Python era il segno evidente di un cambiamento drammatico. Uno scarto nell’espressione individuale in un mondo globalizzato e tenuto insieme da internet. Le conseguenze imprevedibili dell’anglicizzazione del mondo moderno erano evidenti. Quella in atto era una manifestazione organizzata a Londra da musulmani, che sfruttano un diritto fondamentale della democrazie inglese, si esprimono in lingua inglese e allo stesso tempo chiedono a gran voce l’abolizione di quella tradizione libertaria che sta legittimando la loro stessa protesta in quel preciso momento. Niente di più surreale.  

L’inglese degli altri

Nel 2007 Jean-Paul Nerriere, un manager francofono di Ibm, pubblicò un articolo sull’International Herald Tribune in cui descriveva l’Inglese e la sua diffusione mondiale come “l’affermazione di un dialetto globale del terzo milliennio”. Non solo, aveva anche cambiato il nome al “dialetto”. Negli anni novanta Nerriere lavorava in Giappone e frequentava regolarmente meeting in lingua inglese tra persone di diverse nazionalità. Si accorse presto che i non madrelingua si intendevano molto meglio con i clienti, coreani e giapponesi, piuttosto che con i manager britannici o statunitensi. L’inglese standard andava benissimo in una società anglofona, ma laggiù era in gestazione il fenomeno di un inglese “indigeno”, pronto a diventare globale. In un momento di ispirazione, Nerriere battezzò la “nuova” lingua con il nome di globish.  

La teoria di Nerriere ha preso piede rapidamente. Il giornalista del Times Ben Macintyre ha descritto una conversazione tra un ufficiale spagnolo dei corpi di pace Onu e un soldato indiano, origliata mentre aspettava l’arrivo di un volo da Nuova Dehli: “L’indiano non parlava spagnolo. Lo spagnolo non parlava punjabi. Si esprimevano in inglese, ma in una forma molto semplificata, priva di grammatica o struttura ma perfettamente comprensibile, per loro e anche per me. Solo adesso capisco che stavano parlando globish, la più giovane e più diffusa lingua al mondo.”

Nerriere ha studiato e descritto il globish in due libri: Decouvrez le globish e Don’t speak english, parlez globish. L’ex manager ha codificato il vocabolario globish: 1500 parole essenziali per la comunicazione internazionale, e la libera struttura fraseologica in cui possono essere usate dai due miliardi di persone che parlano inglese senza essere madrelingua. “Il globish limiterà in modo impressionante l’influenza della lingua inglese” ha dichiarato in seguito Nerriere. In altre parole, il globish non è solo una lingua franca. È il terzo incomodo tra l’inglese e la lingua madre. E all’inizio del terzo millennio sta guadagnando sempre più spazio.  

La lingua del secolo

Ai tempi dell’impero, per tutto il diciannovesimo secolo, l’inglese britannico ha goduto di una supremazia totale. Nel novecento il testimone del potere è passato agli Stati Uniti e alla loro versione dell’inglese. Durante la guerra fredda la cultura e i valori anglo-americani diventarono familiari in tutto il globo, tanto quanto il motore a scoppio. Praticamente nessun momento di transazione del mondo moderno, tra il 1949 e il 1989, ha potuto prescindere dall’uso di qualche forma di inglese. Ma le opportunità della lingua erano sempre ostacolate dall’associazione con l’imperialismo britannico e la pax americana.     

Oggi è tutto più semplice. Nel ventunesimo secolo la lingua e la cultura inglese si sono liberate dalla loro controversa eredità e dissociate dal trauma postcoloniale. È in atto una nuova rivoluzione culturale: l’inglese emerge come forma di comunicazione globale, con un’inerzia sovranazionale che lo rende indipendente dalle sue origini anglo-americane. Indiani, cinesi e anche molti africani si rivolgono oggi al globish come a uno propulsore di libertà e modernità. L’anno scorso il governo dello stato francofono del Rwanda ha fatto richiesta di ingresso nel Commonwealth e ha addirittura adottato l’inglese come lingua ufficiale del paese.  

Fenomeni come Twitter, il movimento verde in Iran e il film The Millionaire sono tutti attribuibili a una società di lingua globish. Visto dalla prospettiva di internet, l’emergere di uno strumento globale di comunicazione indipendente dalle radici anglo-americane è potenzialmente un fatto decisivo. Mentre la Gran Bretagna è sempre meno ossessionata dalla deriva “stelle e strisce” della propria cultura, il globish cresce in tutto il mondo per conto proprio. Sarà anche una previsione arrischiata, ma sono convinto che il globish sarà il maggior fenomeno linguistico di tutto il ventunesimo secolo”.

Robert McCrum  (traduzione a cura di PressEurop)

L’articolo originale di Robert McCrum è qui.

L’articolo di Vittorio Messori è qui.

Pubblicato da RG

Pino Bruno

Scrivo per passione e per dovere, sono direttore di Tom's Hardware Italy, ho fatto il giornalista all'Ansa e alla Rai e scrivo di digital life per Mondadori Informatica e Sperling&Kupfer

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