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Segreto professionale e perquisizioni

Bene ha fatto il collega Franco Abruzzo, già presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, a riproporre sul suo sito la ricerca, in punto di diritto, su perquisizioni, diritto di cronaca e segreto professionale dei giornalisti. Dalla quale si evince che quanto sta accadendo in queste ultime settimane nelle redazioni italiane va al di là delle norme. Ecco il testo, ponderoso:

Ricerca di Franco Abruzzo aggiornata con le sentenze 348/2007, 349/2007 e 39/2008  della  Corte costituzionale.

SEGRETO PROFESSIONALE E PERQUISIZIONI.

Con le sentenze Goodwin, Roemen e Tillack, la Corte di Strasburgo ha imposto l’alt alle perquisizioni nelle redazioni a tutela delle fontidei giornalisti. “Gli Stati contraenti sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu”: le sentenze 348/07, 349/07 e 39/2008 della Corte costituzionale sono una svolta ineludibile ed epocale!

Pm e giudici  obbligati ad adeguarsi. Immediatamente e senza indugi.

Sentenza 39/2008 della Corte costituzionale: “Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l’altro, che, con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell’ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi”. 

INDICE

1. Il giornalista come mediatore intellettuale tra il fatto e i lettori. Il segreto professionale gli consente di ricevere notizie, mentre le fonti sono “garantite”.

2. Cassazione (VI sezione penale): “Segreto ampio per i giornalisti sulle informazioni capaci di rivelare la fonte fiduciaria”. Cronista di Como, imputato ex art. 371/bis, assolto con la formula più ampia (il fatto non sussiste). Anche la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo protegge le fonti dei giornalisti.

3. C’è differenza tra il segreto professionale dei giornalisti e quello degli altri professionisti.

4. Sentenza Goodwin: la Corte di Strasburgo difende il segreto professionale dei giornalisti.

5. La Corte di Strasburgo, con la sentenza Roemen, impone l’alt alle perquisizioni negli uffici dei giornalisti  e dei loro avvocati a tutela delle fonti dei giornalisti.

6. Pubblicazione di atti processuali coperti dal segreto istruttorio: la Corte di Strasburgo assolve due giornalisti francesi (Dupuis c. Francia, ricorso n. 1914/02, sentenza 7 giugno 2007). 

7. La Corte  di Strasburgo condanna il Belgio per la perquisizione della casa e dell’ufficio del giornalista Hans-Martin Tillack.

8. La tutela delle fonti delle giornalisti a livello continentale (Consiglio d’Europa e Parlamento europeo.

9. Sentenza 39/2008 della Corte costituzionale: “Gli Stati contraenti  sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)”.

10. I giornalisti  italiani devono rifiutarsi di rispondere ai giudici sul segreto professionale, invocando, con le leggi nazionali, la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze Goodwin, Roemen e Tillack della Corte di Strasburgo. Il Codice di procedura penale (articolo 200) deve recepire Strasburgo. Pm e Gip devono indagare soltanto su chi (pubblico ufficiale) “spiffera” la notizia e non su chi (giornalista) la riceve in maniera pulita.

Ricerca di  Franco  Abruzzo

(docente universitario  a contratto di Diritto dell’informazione e dell’editoria)

 

1. Il giornalista come mediatore intellettuale tra il fatto e i lettore. Il segreto professionale gli consente di ricevere notizie, mentre le fonti sono “garantite” –   Non esiste il concetto giuridico di giornalismo. Il concetto, abitualmente estrapolato dall’articolo 2 della legge professionale n. 69/1963 (quello dedicato alla deontologia della categoria), si riassume nella frase “giornalismo=informazione critica”. Il primo comma dell’articolo 2, infatti, dice: “È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica…..”. Questo vuoto è stato, però, riempito dalla  giurisprudenza: “Per attività giornalistica deve intendersi la prestazione di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento e alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione. Il giornalista si pone pertanto come mediatore intellettuale tra il fatto e la diffusione della conoscenza di esso…… differenziandosi la professione giornalistica da altre professioni intellettuali proprio in ragione di una tempestività di informazione diretta a sollecitare i cittadini a prendere conoscenza e coscienza di tematiche meritevoli, per la  loro novità, della dovuta attenzione e considerazione”  (Cass. Civ., sez. lav., 20  febbraio 1995, n. 1827). Dall’insieme delle norme si ricava che il giornalista raccoglie,  commenta e elabora notizie legate all’attualità e che è tenuto ad assicurare (ai cittadini) un’informazione “qualificata e caratterizzata (secondo la sentenza n. 112/1993 della Corte costituzionale, ndr) da obiettività, imparzialità, completezza e correttezza; dal rispetto della dignità umana, dell’ordine pubblico, del buon costume e del libero sviluppo psichico e morale dei minori nonché dal pluralismo delle fonti cui (i giornalisti, ndr) attingono conoscenze e notizie in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni, avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti”. Il pluralismo delle fonti a sua volta  ha un’interfaccia che  si chiama segreto professionale.

Nel nostro ordinamento la tutela del segreto professionale viene tradizionalmente fatto risalire all’articolo 622 del Codice penale del 1930 (in vigore), che punisce la rivelazione del segreto professionale. Il divieto di divulgare la fonte della notizia è, invece,  un principio giuridico, che ha festeggiato i 40 anni nel 2003. Giornalisti ed editori, in base all’articolo 2 (comma 3) della legge professionale n. 69/1963, “sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse“. Tale norma consente al giornalista di ricevere notizie, mentre le fonti sono “garantite”. Anche l’articolo 138 Del Testo unico sulla privacy (Dlgs n. 196/2003) tutela il segreto dei giornalisti sulla fonte delle notizie, quando afferma che  “restano ferme le norme sul segreto professionale degli esercenti la professione di giornalista, limitatamente alla fonte della notizia”. La violazione della regola deontologica del segreto sulla fonte fiduciaria comporta responsabilità disciplinare (articoli 2 e  48 della legge n. 69/1963).

Il rispetto della segretezza della fonte fiduciaria della notizia, però, non appare assoluto. L’articolo 200 del Codice di procedura penale del 1988 stabilisce, per quanto concerne il rapporto tra obbligo a deporre avanti al giudice e segreto professionale, che il giornalista può opporre il segreto professionale sui nomi delle persone dalle quali egli ha avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della professione.  Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata soltanto attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare la fonte delle sue informazioni. Il segreto professionale può, quindi, essere rimosso con “comando” del giudice a condizione che: a) la notizia che proviene dalla fonte fiduciaria sia indispensabile ai fini della prova del reato per cui si procede; b) l’accertamento della veridicità della notizia possa avvenire soltanto tramite l’identificazione della fonte fiduciaria (Tribunale di Alba, sentenza 25 gennaio 2001, n. 601/2000 Reg. gen.). In particolare il terzo comma dell’articolo 200 del Cpp enuncia: “Le disposizioni… si applicano ai giornalisti professionisti iscritti nell’Albo professionale, relativamente ai nomi delle persone dalle quali i medesimi hanno avuto notizie di carattere fiduciario nell’esercizio della loro professione. Tuttavia se le notizie sono indispensabili ai fini della prova del reato per cui si procede e la loro veridicità può essere accertata solo attraverso l’identificazione della fonte della notizia, il giudice ordina al giornalista di indicare le fonti delle sue informazioni“. I pubblicisti e i praticanti, esclusi dai vincoli dell’articolo 200 del Codice di procedura penale, non possono, quindi, davanti al giudice,  come i giornalisti professionisti, avvalersi delle norme citate per “coprire” la fonte fiduciaria delle loro notizie. Ma è pur vero che gli stessi sono tenuti a rispettare l’articolo  2 (comma 3) della legge  n. 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista: conseguentemente possono invocare il segreto sulle fonti.

 

2. Cassazione (VI sezione penale): “Segreto ampio per i giornalisti sulle informazioni capaci di rivelare la fonte fiduciaria”. Cronista di Como, imputato ex art. 371/bis, assolto con la formula più ampia (il fatto non sussiste). Anche la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo protegge le fonti dei giornalisti.

La VI sezione penale della Cassazione, assolvendo un cronista di Como (imputato ex art. 371/bis) con  la formula più ampia (il fatto non sussiste) ha allargato il segreto professionale dei giornalisti. Con la sentenza n. 85 del 21 gennaio 2004 (depositata l’11 maggio), la  Corte suprema ha stabilito che il segreto professionale sulle fonti, sancito dall’articolo 200, comma 3 del Codice di procedura penale, si estende  “a tutte le indicazioni che possono condurre all’identificazione di coloro che hanno fornito fiduciariamente le notizie”. In particolare si legge nella sentenza: “L’attività giornalistica secondo la previsione dell’art. 200 u.c. c.p.p. è tutelata dal segreto pro­fessionale per cui il giornalista professionista iscritto all’albo non può essere obbligato a deporre relativamente ai nomi delle persone dalle quali ha ricevuto notizie di carattere fiducia­rio nell’esercizio della sua professione. La tutela deve ritenersi necessariamente estesa a tutte le indicazioni che possono condurre all’identificazione di coloro che hanno fornito fiduciariamente le notizie. Rientra pertanto nel segreto professionale anche l’indicazione relativa alle utenze telefoniche di cui il giornalista disponeva nel periodo in cui ha ricevuto le notizie fiduciarie perché la stes­sa è dichiaratamente funzionale rispetto all’identificazione di coloro che tali notizie hanno fornito e la relativa richiesta è quindi in contrasto con il divieto posto dall’art. 200 c.p.p. cit..Ne deriva che il giornalista il quale, sentito come testimone, si astiene dal deporre opponendo legittimamente il segreto professionale, anche in ordine a indicazioni che comunque possono essere utilizzate per risalire alla fonte delle notizie pubblicate, non si rende colpevole del reato previsto dall’art. 371 bis c.p.p. per aver taciuto in tutto o in parte ciò che sa intorno ai fatti su cui viene sen­tito”. Il giornalista che tutela la fonte, come la Corte ha riconosciuto, non può essere costretto a deporre, come pretendeva il Pm di Como.

“Ogni tentativo di aggirare il diritto a tutelare le fonti costituisce un’aggressione alla libertà di stampa. L’assenza della necessaria protezione potrebbe infatti dissuadere le fonti dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni di interesse generale. Alla tendenza restrittiva, manifestata sovente dai giudici nazionali, si contrappone ora la sentenza in esame, che ha riconosciuto il diritto al silenzio del giornalista quando le risposte possono anche potenzialmente consentire l’individuazione delle sue fonti” (Caterina Malavenda in  “Il Sole 24 Ore” dell’11 giugno 2004).

Il segreto professionale è salvaguardato anche  dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. L’articolo 10 (Libertà di espressione), – ripetendo le parole della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo del 1948 e del Patto sui diritti politici di New York del 1966 -,  recita: Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere”. La libertà di ricevere le informazioni comporta, come ha scritto la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo, la protezione assoluta  delle fonti dei giornalisti.

Prima di questa sentenza della Cassazione, era  affiorato un orientamento più favorevole alle ragioni dei giornalisti: “La norma di cui al comma 3 dell’art. 200  Cpp deve intendersi riferita all’accertamento della fondatezza della notizia pubblicata, in quanto funzionale all’esame della sua veridicità che può trovare l’unico strumento nella identificazione della fonte fiduciaria. Solo in tale circostanza quindi il giudice, al fine di verificare la rispondenza della notizia indispensabile per la prova di un reato per cui si procede, potrebbe ordinare al giornalista di indicare la sua fonte, purché sia l’unico strumento investigativo a disposizione” (Pret. Roma, 21/02/1994).

Una difesa forte del segreto dei giornalisti era stata affermata dalla sentenza 14 gennaio 2000 del Tribunale penale di Treviso (n. 252/1999 Reg. gen.): “Nulla è risultato circa l’identità dell’informatore perché tutti i giornalisti indicati come testi si sono avvalsi del segreto professionale. Il Pm ha chiesto che gli stessi venissero obbligati, così come previsto dall’articolo 200 (terzo comma) Cpp, a deporre sul punto, ma il collegio ha respinto l’istanza. La norma appena menzionata assicura, invece,  una piena tutela al segreto professionale dei giornalisti, consentendo una deroga soltanto in via di eccezione, e quindi di stretta interpretazione.  Prevede l’imposizione dell’obbligo a deporre in presenza – congiunta – di due precisi requisiti: quello dell’impossibilità di accertare la veridicità della notizia se non attraverso l’identificazione della fonte della stessa e quello dell’indispensabilità della notizia ai fini della prova del reato per il quale si procede. Se questi sono gli stretti limiti di operatività della deroga, sembra evidente che l’obbligo a deporre sarebbe stato imposto non già ad accertare la veridicità della notizia (che  pacificamente in questo caso erano vere e non richiedevano  alcuna verifica in tal senso) , bensì ad individuare l’autore del reato di rivelazione di segreti (del quale, oltretutto, il giornalista avrebbe potuto eventualmente essere anche partecipe), violando così la tutela del segreto sulle fonti giornalistiche accordata dal legislatore”.

 

3. C’è differenza tra il segreto professionale dei giornalisti e quello degli altri professionisti – Medici, chirurghi, avvocati, sacerdoti, notai, consulenti tecnici, farmacisti e ostetriche, dottori e ragionieri commercialisti, consulenti del lavoro, dipendenti del servizio pubblico per le tossicodipendenze sono tenuti a non divulgare notizie ricevute sotto l’impegno del segreto professionale. I giornalisti, invece, sono eticamente obbligati a rendere pubbliche (sulla stampa, per agenzia, per tv o per radio, per web) le notizie ricevute, ma, con gli editori, in base all’articolo 2 della legge professionale e all’articolo 13 della legge sulla privacy, sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse. Gli uni non divulgano le notizie, gli altri (i giornalisti) devono pubblicare e tutelare soltanto la fonte delle notizie pubblicate.

 

4. Sentenza Goodwin: la Corte di Strasburgo difende il segreto professionale dei giornalisti – La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (recepita con la legge 4 agosto 1955 n. 848) con l’articolo 10, come riferito, tutela espressamente le fonti dei giornalisti, stabilendo il diritto a “ricevere” informazioni. Lo ha spiegato la Corte dei diritti dell’Uomo di Strasburgo con la sentenza che ha al centro il caso del giornalista inglese William Goodwin (Corte europea diritti dell’Uomo 27 marzo 1996, Goodwin c. Regno Unito, v. Tabloid n. 1/2000 n. Peron). William Goodwin,  giornalista inglese, aveva ricevuto da una fonte fidata ed attendibile alcune informazioni su una società di programmi elettronici (la Tetra Ltd). In particolare il giornalista rivelò che tale società aveva contratto numerosi debiti e vertiginose perdite. La società Tetra per evitare i danni che sarebbero potuti derivarle dalla divulgazione di tali notizie presentò all’alta Corte di Giustizia inglese un ricorso con il quale non solo chiedeva che fosse vietata la pubblicazione dell’articolo in questione, ma chiedeva altresì che il giornalista fosse condannato a rivelare la fonte delle informazioni ricevute al fine di evitare nuove “fughe di notizie”. Le richiesta della Tetra furono accolte sia dall’alta Corte che dalla corte d’Appello, secondo le quali il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche  ben può essere limitato “nell’interesse della giustizia, della sicurezza nazionale nonché a fini di prevenzione di disordini o di delitti”. Il giornalista, tuttavia, non eseguì l’ordine di divulgazione della  fonte – posto che in tale modo la stessa si sarebbe “bruciata” – e presentò ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo, denunciando la violazione dell’articolo 10 della Convenzione.

La Corte di Strasburgo, con sentenza 27 marzo 1996, muovendo dal principio che ad ogni giornalista deve essere riconosciuto il  diritto di ricercare le notizie, ha ritenuto che “di tale diritto fosse logico e conseguente corollario anche il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche, fondando tale assunto sul presupposto che l’assenza di tale protezione potrebbe dissuadere le fonti non ufficiali dal fornire notizie importanti al giornalista, con la conseguenza che questi correrebbe il rischio di rimanere del tutto ignaro di informazioni che potrebbero rivestire un interesse generale per la collettività”. Questa sentenza della Corte di Strasburgo è l’altra faccia di una sentenza (la n. 11/1968) della nostra Corte costituzionale: “Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna  convenire  che quel  precetto,  più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir  meno  ad  essa, giammai  l’esercitarla  che  può  compromettere  quel  decoro e quella dignità sui quali l’Ordine è chiamato a vigilare”.                    

La decisione del caso  “Goodwin”  è particolarmente interessante anche perché ha concorso a dissipare i dubbi nascenti da una interpretazione letterale dell’articolo 10 della Convenzione, che si limita a specificare che la libertà di espressione comprende sia il diritto passivo a ricevere delle informazioni sia il diritto attivo di fornirle, senza, però, che sia menzionato il diritto del giornalista di cercare e procurarsi notizie tramite proprie fonti di informazioni. Tale lacuna aveva, difatti, sollevato il quesito  – attualmente sciolto dalla Corte – che quest’ultimo diritto non rientrasse nell’ambito del diritto alla libertà e pertanto non fosse ricompreso nell’ambito della sua tutela. Anche la nostra Corte costituzionale, con la sentenza n. 1/1981, ha riconosciuto solennemente  “l’esistenza di una vera e propria libertà di cronaca dei giornalisti (comprensiva dell’acquisizione delle notizie) e di un comune interesse all’informazione, quale risvolto passivo della libertà di manifestazione del pensiero”.

 

5. La Corte di Strasburgo, con la sentenza Roemen, impone l’alt alle perquisizioni negli uffici dei giornalisti  e dei loro avvocati a tutela delle fonti dei giornalisti – L’ordinamento europeo impedisce ai giudici nazionali di  ordinare perquisizioni  negli uffici e nelle abitazioni dei giornalisti nonché nelle “dimore” dei loro avvocati a caccia di  prove sulle fonti confidenziali dei cronisti: “La libertà d’espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, e le garanzie da concedere alla stampa rivestono un’importanza particolare. La protezione delle fonti giornalistiche è uno dei pilastri della libertà di stampa. L’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa a informare il pubblico su questioni d’interesse generale. Di conseguenza, la stampa potrebbe essere meno in grado di svolgere il suo ruolo indispensabile di “cane da guardia” e il suo atteggiamento nel fornire informazioni precise e affidabili potrebbe risultare ridotto”. Questi sono i principi  sanciti nella sentenza “Roemen” 25 febbraio 2003 (Procedimento n. 51772/99) della quarta sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il segreto professionale dei giornalisti è tutelato, come riferito,  dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU),  mentre l’articolo 8 della stessa Convenzione protegge il domicilio dei legali.

I protagonisti di questa vicenda (causa Roemen e Schmit contro Lussemburgo)  sono due cittadini lussemburghesi, il giornalista  Robert  Roemen e l’avvocato Anne-Marie Schmit. La Corte di Strasburgo ha dichiarato che c’è stata la violazione degli articoli 8 e 10 della Convenzione e conseguentemente ha condannato il Granducato del Lussemburgo a pagare al giornalista e all’avvocato 4mila euro a testa per i danni morali  nonché le spese (11.629 euro) al cronista.

Il 21 luglio 1998, Robert Roemen ha pubblicato un articolo intitolato “Minister W. der Steuerhinterziehung überführt” (“Il ministro W. accusato di frode fiscale”) sul quotidiano “Lëtzëbuerger Journal”. Vi sosteneva che “il ministro aveva infranto il settimo, l’ottavo e il nono comandamento con frodi riguardanti l’IVA e osservava che ci si sarebbe potuti aspettare che un uomo politico di destra prendesse più sul serio i principi elaborati con tanta cura da Mosè. Precisava che il ministro era stato oggetto di una sanzione fiscale di 100.000 franchi lussemburghesi. Concludeva che un tale atteggiamento era ancor più vergognoso poiché proveniente da una personalità che doveva servire da esempio”. La reazione del ministro era scattata sul fronte amministrativo e penale. Così i giudici avevano ordinato di perquisire gli studi e gli uffici del giornalista e dell’avvocato alla ricerca di indizi  tali da portare gli inquirenti alla identificazione delle “gole profonde” annidate nell’amministrazione finanziaria del Granducato.

Si legge nella sentenza: “Secondo l’opinione della Corte il presente caso si distingue dal caso Goodwin in un punto fondamentale. In quest’ultimo caso l’ingiunzione (di un tribunale inglese, ndr) aveva intimato al giornalista di rivelare l’identità del suo informatore, mentre nel caso in oggetto sono state effettuate perquisizioni presso il domicilio e il luogo di lavoro del giornalista. La Corte giudica che delle perquisizioni aventi per oggetto di scoprire la fonte di un giornalista costituiscono – anche se restano senza risultato – un’azione più grave dell’intimazione di divulgare l’identità della fonte. Infatti, gli inquirenti che, muniti di un mandato di perquisizione, sorprendono un giornalista nel suo luogo di lavoro, detengono poteri d’indagine estremamente ampi poiché, per definizione, possono accedere a tutta la documentazione in possesso del giornalista. La Corte, che non può fare altro se non rammentare che “i limiti definiti per la riservatezza delle fonti giornalistiche esigono da parte [sua] (…) l’esame più scrupoloso possibile”,  è quindi del parere che le perquisizioni effettuate presso il giornalista erano ancora più lesive nei confronti della protezione delle fonti di quelle adottate nel caso Goodwin.In considerazione di quanto precede la Corte giunge alla conclusione che il Governo non ha dimostrato che l’equilibrio degli interessi in oggetto, vale a dire, da un lato, la protezione delle fonti e, dall’altro, la prevenzione e repressione dei reati, sia stato salvaguardato. A tale scopo rammenta che “le considerazioni di cui devono tenere conto le istituzioni della Convenzione per esercitare il loro controllo nell’ambito del par. 2 dell’art.10 fanno pendere la bilancia degli interessi in oggetto in favore di quello della difesa della libertà di stampa in una società democratica”.

L’avvocato, invece, lamenta un’aggressione ingiustificata al suo diritto al rispetto del suo domicilio a causa della perquisizione effettuata presso il suo studio. Sostiene inoltre che il sequestro avvenuto in tale occasione ha violato il diritto al rispetto della “corrispondenza fra l’avvocato e il suo cliente“. La Corte riconosce che “il mandato di perquisizione concedeva quindi agli inquirenti dei poteri piuttosto estesi”. Inoltre, e soprattutto, la Corte è del parere che lo scopo della perquisizione era infine quello di svelare la fonte del giornalista: “Di conseguenza, la perquisizione della scrivania dell’avvocato ha avuto una ripercussione sui diritti garantiti al giornalista dall’articolo 10 della Convenzione. La Corte giudica peraltro che la perquisizione della scrivania è stata sproporzionata rispetto allo scopo previsto, sostanzialmente tenendo conto della rapidità con cui è stata effettuata”.

 

6. Pubblicazione di atti processuali coperti dal segreto istruttorio: la Corte di Strasburgo assolve due giornalisti francesi (Dupuis c. Francia, ricorso n. 1914/02, sentenza 7 giugno 2007). 

Due giornalisti erano stati condannati in Francia per la pubblicazione nel 1996 di un libro intitolato “Les Oreilles du Président“, nel quale si raccontava di un sistema illegale di intercettazione orchestrato dagli alti vertici dell’Eliseo contro numerosi personaggi della società francese tra il 1983 e il 1986. Tale caso era stato oggetto dell’attenzione dei media allorquando negli anni ’90 venne pubblicata sulla stampa una lista di 2.000 persone che erano state sottoposte a illecita sorveglianza. Nel 1993 venne poi aperto nei confronti di G.M., un collaboratore del Presidente Mitterrand, un procedimento penale. Con l’uscita del suddetto libro, costui denunciò in sede penale i suoi autori, accusandoli di aver utilizzato – addirittura allegandolo in appendice – materiale sottratto illegalmente dagli atti giudiziari (dichiarazioni rese al giudice istruttore e brogliacci di intercettazioni). Il Tribunale di Parigi decretò che il materiale utilizzato era in effetti documentazione agli atti del processo penale coperto dal segreto istruttorio e condannò i due giornalisti ad una pena pecuniaria.

Investita del caso, la Corte europea ha ritenuto sproporzionata la condanna. In particolare, la Corte ha ritenuto preminente l’interesse pubblico a conosce di quello che era stato un affare di stato, acquisendo certe informazioni – anche riguardanti il processo penale – sulle illegali intercettazioni subite da noti personaggi. La Corte, pur ritenendo legittima la protezione della segretezza delle indagini, ha rilevato che al momento dell’uscita del libro, era già noto che G.M. era stato inquisito e il governo francese non aveva dimostrato come la discovery delle informazioni riservate avesse arrecato a costui una lesione al suo diritto alla presunzione di innocenza , posto che la condanna era seguita 10 anni dopo

“È legittimo – secondo i giudici europei – accordare una protezione particolare al segreto istruttorio, sia per assicurare la buona amministrazione della giustizia, sia per garantire il diritto alla tutela della presunzione d’innocenza delle persone oggetto d’indagine. Ma su queste esigenze prevale il diritto di informare, soprattutto quando si tratta di fatti che hanno raggiunto una certa notorietà tra la collettività. Non solo. La Corte europea ha ribaltato l’onere della prova: non tocca ai giornalisti dimostrare che non hanno violato il segreto istruttorio, ma spetta alle autorità nazionali dimostrare in quale modo «la divulgazione di informazioni confidenziali può avere un’influenza negativa sulla presunzione di innocenza» di un indagato. In caso contrario, la protezione delle informazioni coperte da segreto non «è un imperativo preponderante». Ciò che conta è che i giornalisti agiscano in buona fede, fornendo dati esatti e informazioni precise e autentiche nel rispetto delle regole deontologiche della professione. Una bocciatura anche per le pene disposte dai tribunali nazionali. Secondo la Corte europea, infatti, la previsione di un’ammenda e l’affermazione della responsabilità civile dei giornalisti possono avere un effetto dissuasivo nell’esercizio di questa libertà, effetto che non viene meno anche nel caso di ammende relativamente moderate”. (Dupuis c. Francia, ricorso n. 1914/02, sentenza 7 giugno 2007; fonte: Marina Castellaneta in “Il Sole 24 Ore del 21 giugno 2007).

 

7. La Corte europea dei diritti dell’uomo condanna il Belgio per la perquisizione della casa e dell’ufficio del giornalista Hans-Martin Tillack – La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il Belgio per violazione della libertà di espressione in seguito a perquisizioni effettuate contro il diritto alla protezione delle fonti giornalistiche nell’ufficio di un corrispondente tedesco a Bruxelles. La sentenza della Corte (n. 0 del 27/11/2007) fa riferimento a fatti accaduti nel 2004 contro il giornalista Hans-Martin Tillack, corrispondente da Bruxelles del settimanale Stern dal 1999 al 2004, nell’ambito di un’indagine avviata in seguito alla pubblicazione di due suoi articoli su presunte irregolarità delle istituzioni europee in cui si citavano documenti confidenziali dell’Olaf, l’ufficio antifrode della Ue. Dopo avere condotto un’indagine per scoprire l’origine della fuga di notizie, l’Olaf evocò la possibilità che il giornalista fosse venuto in possesso dei documenti riservati dopo avere versato denaro. Una denuncia che diede il via ad un’indagine giudiziaria per corruzione presunta e per violazione del segreto professionale, nell’ambito della quale la casa e l’ufficio di Tillack furono perquisiti. Nel frattempo, il ricorrente aveva presentato un reclamo al mediatore europeo, che nel maggio 2005 presentava un rapporto speciale al Parlamento Europeo in cui concludeva che i sospetti di corruzione erano stati basati sulla pura diffusione di voci da parte di un altro giornalista e non da Membri del Parlamento Europeo, come l’Olaf aveva ipotizzato. Con la sentenza del  27 novembre 2007, la  Corte ha chiarito che le perquisizioni “avevano come scopo di svelare la provenienza delle fonti” e che pertanto rientravano “nel campo della protezione delle fonti giornalistiche”. “In merito alla lamentata violazione dell’art. 10 della Cedu, la Corte europea ha affermato che il diritto dei giornalisti – si legge nella sentenza – di tacere le proprie fonti non deve essere considerato come un semplice privilegio che può loro essere tolto in funzione della liceità o non liceità delle fonti, ma costituisce parte della libertà di stampa e deve essere trattato con la massima attenzione, ancor più nel caso del ricorrente, dove gli indizi erano vaghi e fondati su voci non corroborate. In conclusione, la Corte ha considerato che, anche se i motivi dati dalle corti belghe erano “rilevanti”, non potevano essere considerati “sufficienti” per giustificare le ricerche subite dal ricorrente, constatando pertanto la violazione dell’articolo 10″.

 

8. La tutela delle fonti delle giornalisti a livello continentale (Consiglio d’Europa e Parlamento europeo) – Con la raccomandazione n° R  (2000) 7, adottata l’8 marzo 2000, anche il Consiglio d’Europa ha voluto tutelare solennemente le fonti dei giornalisti, affermando: “Il diritto dei giornalisti di non rivelare le loro fonti fa parte integrante del loro diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 della Convenzione. L’articolo 10 della Convenzione, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, s’impone a tutti gli Stati contraenti. Vista l’importanza, per i media all’interno di una società democratica, della confidenzialità delle fonti dei giornalisti, è bene tuttavia che la legislazione nazionale assicuri una protezione accessibile, precisa e prevedibile. E’ nell’interesse dei giornalisti e delle loro fonti come in quello dei pubblici poteri disporre di norme legislative chiare e precise in materia. Queste norme dovrebbero ispirarsi all’articolo 10, così come interpretato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, oltre che alla presente Raccomandazione. Una protezione più estesa della confidenzialità delle fonti d’informazione dei giornalisti non è esclusa dalla Raccomandazione. Se un diritto alla non-divulgazione esiste, i giornalisti possono legittimamente rifiutare di divulgare delle informazioni identificanti una fonte senza esporsi alla denuncia della loro responsabilità sul piano civile o penale o a una qualunque pena cagionata da questo rifiuto”. Questa raccomandazione concorre a formare uno “spazio giuridico europeo”, che fa del segreto professionale dei giornalisti un caposaldo della libertà di stampa e del diritto dei cittadini all’informazione.

 Del resto la tendenza espressa dalla Corte di Strasburgo (con le sentenze citate) trova ulteriore conferma e riscontro con le pronunce espresse al riguardo dallo stesso Parlamento Europeo, il quale – in una risoluzione del 18 gennaio 1994 sulla segretezza delle fonti d’informazione dei giornalisti –  ha dichiarato che “il diritto alla segretezza delle fonti di informazioni dei giornalisti contribuisce in modo significativo a una migliore e più completa informazione dei cittadini e che tale diritto influisce di fatto anche sulla trasparenza del processo decisionale”. In sintesi il segreto professionale è indispensabile sia nello svolgimento della professione giornalistica che nell’esercizio del diritto di ogni cittadino a ricevere informazioni, mentre per contro le uniche eccezioni ammissibili devono essere ragionevoli e in ogni caso limitate, poiché “il mancato rispetto del segreto professionale limita in modo indiretto lo stesso diritto all’informazione”

 

9. Sentenza 39/2008 della Corte costituzionale: “Gli Stati contraenti  sono vincolati ad uniformarsi alle interpretazioni che la Corte di Strasburgo dà delle norme della Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’Uomo)”.

La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) rappresenta un meccanismo di protezione internazionale dei diritti dell’uomo particolarmente efficace. Le norme della Convenzione, nella interpretazione che ne dà soltanto la Corte di Strasburgo, sono di immediata operatività per gli Stati contraenti. L’articolo 10 della Convenzione afferma che  Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Questo diritto comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere  interferenza di pubbliche autorità e senza riguardo alla nazionalità”. Il principio in base al quale ogni persona ha la libertà di “ricevere e  comunicare informazioni” è alla base delle sentenze Goodwin, Roemen e Tillack sulla inviolabilità delle fonti dei giornbaoisti, La Repubblica italiana ora deve assorbire nel suo ordinamento i principi fissati dalla  Corte di  Strasburgo. La Corte costituzionale sul punto ha emesso tre sentenze (348 e 349/2007; 39/2008) che vincolano la  Repubblica Italiana ed i suoi magistrati ad uniformarsi alle sentenze di Strasburgo. Si legge nella sentenza 39/2008 (presidente Bile; relatore Amorante): Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l’altro, che, con riguardo all’art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell’ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi”. Le norme Cedu si collocano, quindi, come norme interposte, tra la Costituzione e le leggi di rango ordinario. Si può dire che sono norme sub-costituzionali.

Nella sentenza 348/2007, la Corte costituzionale ha spiegato quali sono gli obblighi della Repubblica Italiana verso la Convenzione e  le sentenze della Corte: La CEDU presenta, rispetto agli altri trattati internazionali, la caratteristica peculiare di aver previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell’uomo, cui è affidata la funzione di interpretare le norme della Convenzione stessa. Difatti l’art. 32, paragrafo 1, stabilisce: «La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste negli articoli 33, 34 e 47». Poiché le norme giuridiche vivono nell’interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i giudici in primo luogo, la naturale conseguenza che deriva dall’art. 32, paragrafo 1, della Convenzione è che tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione. Non si può parlare quindi di una competenza giurisdizionale che si sovrappone a quella degli organi giudiziari dello Stato italiano, ma di una funzione interpretativa eminente che gli Stati contraenti hanno riconosciuto alla Corte europea, contribuendo con ciò a precisare i loro obblighi internazionali nella specifica materia”  (sentenza 348 – pubblicazione in G. U. 31/10/2007 – presidente Bile – relatore Silvestri).

Con la sentenza 349/2007, la Corte costituzionale, invece, ha puntato il dito su chi (Presidenza del consiglio dei Ministri) debba provvedere ad attivare i “meccanismi” e gli “adempimenti” diretti al recepimento nel nostro ordinamento delle pronunce di Strasburgo: “Dagli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte è dunque possibile desumere un riconoscimento di principio della peculiare rilevanza delle norme della Convenzione, in considerazione del contenuto della medesima, tradottasi nell’intento di garantire, soprattutto mediante lo strumento interpretativo, la tendenziale coincidenza ed integrazione delle garanzie stabilite dalla CEDU e dalla Costituzione, che il legislatore ordinario è tenuto a rispettare e realizzare. La peculiare rilevanza degli obblighi internazionali assunti con l’adesione alla Convenzione in esame è stata ben presente al legislatore ordinario. Infatti, dopo il recepimento della nuova disciplina della Corte europea dei diritti dell’uomo, dichiaratamente diretta a «ristrutturare il meccanismo di controllo stabilito dalla Convenzione per mantenere e rafforzare l’efficacia della protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali prevista dalla Convenzione» (Preambolo al Protocollo n. 11, ratificato e reso esecutivo con la legge 28 agosto 1997, n. 296), si è provveduto a migliorare i meccanismi finalizzati ad assicurare l’adempimento delle pronunce della Corte europea (art. 1 della legge 9 gennaio 2006, n. 12), anche mediante norme volte a garantire che l’intero apparato pubblico cooperi nell’evitare violazioni che possono essere sanzionate (art. 1, comma 1217, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Infine, anche sotto il profilo organizzativo, da ultimo è stata disciplinata l’attività attribuita alla Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilendo che gli adempimenti conseguenti alle pronunce della Corte di Strasburgo sono curati da un Dipartimento di detta Presidenza (d.P.C.m. 1° febbraio 2007 – Misure per l’esecuzione della legge 9 gennaio 2006, n. 12, recante disposizioni in materia di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo)” (sentenza 349 – pubblicazione in G. U. 31/10/2007- presidente Bile – relatore Tesauro).

E’ indubbio che le tre sentenze della Corte costituzionale costituiscono una pietra miliare nella storia del diritto convenzionale. Lo Stato da una parte, i pm e i giudici dall’altra sono tenuti ad attenersi alle norme e alle  interpretazioni  delle norme della  Convenzione elaborate dalla  Corte di Strasburgo. Le sentenze della Consulta sono vincolanti ed ineludibili. Anche la Cassazione, negli ultimi 20 anni, ha offerto interpretazioni (che pur non avendo la forza di quelle della  Consulta) sono eloquenti nell’orientamento dei tribunali nazionali: «Le  norme  della  Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, salvo quelle il cui contenuto sia   da   considerarsi   così   generico  da  non  delineare  specie sufficientemente  puntualizzate,  sono  di immediata applicazione nel nostro  Paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più  ampio  complesso  normativo  che  si  è  venuto a determinare in conseguenza   del  loro  inserimento  nell’ordinamento  italiano;  la ‘precettività’  in  Italia delle norme della Convenzione consegue dal principio  di   adattamento   del   diritto   italiano   al  diritto internazionale  convenzionale per cui ove l’atto o il fatto normativo internazionale  contenga  il  modello di un atto interno completo nei suoi  elementi  essenziali,  tale  cioè  da  poter  senz’altro creare obblighi  e  diritti,  l’adozione  interna  del  modello  di  origine internazionale  è  automatica  (adattamento  automatico),  ove invece l’atto  internazionale  non  contenga  detto  modello  le  situazioni giuridiche  interne  da esso imposte abbisognano, per realizzarsi, di una specifica attività normativa dello Stato» (Cass., sez. un. pen., 23 novembre 1988; Parti in causa Polo Castro; Riviste: Cass. Pen., 1989, 1418, n. Bazzucchi; Riv. Giur. Polizia Locale, 1990, 59; Riv. internaz. diritti dell’uomo, 1990, 419).

Ribadiscono ancora i supremi giudici della prima sezione penale, che si pongono  su di una linea di continuità con gli enunciati delle Sezioni unite penali del 1988: «Le norme della Convenzione europea, in quanto principi  generali  dell’ordinamento, godono di una particolare forma di  resistenza nei confronti della legislazione nazionale posteriore» (Cass. pen., sez. I, 12 maggio 1993; Parti in causa Medrano; Riviste  Cass. Pen., 1994, 440, n. Raimondi; Rif. legislativi L 4 agosto 1955 n. 848; Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, art. 86). La suprema magistratura civile è dello stesso avviso: «Le  norme  della  Convenzione  europea  sui diritti dell’Uomo, nonché quelle  del primo protocollo addizionale, introdotte nell’ordinamento italiano  con  l.  4 agosto 1955 n. 848, non sono dotate di efficacia meramente   programmatica.   Esse,   infatti,  impongono  agli  Stati contraenti,   veri   e   propri   obblighi  giuridici  immediatamente vincolanti, e, una volta introdotte nell’ordinamento statale interno, sono  fonte  di  diritti  ed obblighi per tutti i soggetti. E non può dubitarsi  del  fatto  che  le  norme in questione – introdotte nello ordinamento  italiano  con  la  forza  di  legge  propria  degli atti contenenti  i  relativi  ordini  di esecuzione, non possono ritenersi abrogate  da  successive  disposizioni  di legge interna, poiché esse derivano da una fonte riconducibile ad una competenza atipica e, come tali,  sono insuscettibili di abrogazione o modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria» (Cass. civ., sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672; Riviste: Riv. It. Dir. Pubbl. Comunitario, 1998, 1380, n. Marzanati;  Giust. Civ., 1999, I, 498; Rif. legislativi L  4 agosto 1955 n. 848). Anche la giustizia amministrativa ritiene che  «la Convenzione europea dei diritti  dell’Uomo,  resa  esecutiva con la l. 4 agosto 1955 n. 848, sia direttamente  applicabile  nel  processo  amministrativo»  (Tar Lombardia, sez. III, Milano 12 maggio 1997 n. 586; Parti in causa Soc. Florenzia c. Iacp Milano e altro; Riviste Foro Amm., 1997, 1275,, 2804, n. Perfetti; Colzi; Rif. legislativi L  4 agosto 1955 n. 848, artt. 6 e 13  L 4 agosto 1955 n. 848).

La Convenzione deve il suo successo  al fatto di fondarsi su un sistema di ricorsi – sia da parte degli Stati contraenti sia da parte degli  individui –  in grado di assicurare un valido controllo in ordine al rispetto dei principi fissati dalla Convenzione stessa. La  Corte europea dei diritti dell’Uomo è in sostanza un tribunale  internazionale istituito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali al quale può essere proposto ricorso  per la violazione di diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sia dagli Stati  contraenti e sia dai cittadini dei singoli Stati.

Non solo gli articoli della Convenzione  quant’anche le sentenze della Corte europea dei diritti dell’Uomo, che della prima è diretta emanazione, sono vincolanti per gli Stati contraenti. «Le Alte Parti contraenti – dice l’articolo 46 della Convenzione – si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive  della Corte nelle controversie nelle quali sono parti». Le sentenze formano quel diritto vivente al quale i giudici dei vari Stati contraenti sono chiamati ad adeguarsi: «La portata e il significato effettivo delle disposizioni della Convenzione  e dei suoi protocolli non possono essere compresi adeguatamente senza far riferimento alla giurisprudenza. La giurisprudenza  diviene dunque, come la Corte stessa ha precisato nel caso Irlanda contro Regno Unito (sentenza 18 gennaio 1978, serie A n. 25, §  154) fonte di parametri interpretativi che oltrepassano spesso i limiti del caso concreto e assurgono a criteri di valutazione del rispetto, in seno ai vari sistemi giuridici, degli obblighi derivanti  dalla Convenzione….i criteri che hanno guidato la Corte in un dato caso possono trovare e hanno trovato applicazione, mutatis mutandis, anche in casi analoghi riguardanti altri Stati» (Antonio Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo: considerazioni introduttive, in Il Corriere giuridico,  Ipsoa, n. 5/1999, pagina 650). D’altra parte, dice l’articolo 53 della Convenzione,  «nessuna delle disposizioni della presente Convenzione può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Paese contraente o in base ad ogni altro accordo al quale tale Parte contraente partecipi». Vale conseguentemente, con valore vincolante, l’interpretazione che della Convenzione  dà esclusivamente la Corte europea di Strasburgo. Su questa linea si muove il principio affermato il 27 febbraio 2001 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo: “I giudici nazionali devono applicare le norme della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo secondo i principi ermeneutici espressi nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo” (in Fisco, 2001, 4684).

 

10. I giornalisti  italiani devono rifiutarsi di rispondere ai giudici sul segreto professionale, invocando, con le leggi nazionali, la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze Goodwin, Roemen e Tillack della Corte di Strasburgo. Il Codice di procedura penale (articolo 200) deve recepire Strasburgo. Pm e Gip devono indagare soltanto su chi (pubblico ufficiale) “spiffera” la notizia e non su chi (giornalista) la riceve in maniera pulita E’ diritto insopprimibile dei giornalisti  quello di raccontare quel che accade, fatti e notizie su questioni  di  interesse  generale. Questo principio, che è l’incipit dell’articolo 2 della legge professionale dei giornalisti italiani, è consacrato in una sentenza della Corte di Strasburgo. La libertà di scrivere è sacra e cammina di pari passo con l’osservanza della deontologia. Il rispetto del segreto professionale è una regola fondamentale perché sul rovescio garantisce il diritto dei cittadini all’informazione: “E’  diritto  dei  giornalisti  quello  di  comunicare informazioni su questioni  di  interesse  generale,  purché  ciò avvenga nel rispetto dell’etica  giornalistica,  che  richiede  che  le informazioni siano espresse  correttamente  e  sulla  base  di  fatti  precisi  e  fonti affidabili;  costituisce,  pertanto,  un  limite  irragionevole  alla libertà  di  stampa  la condanna per ricettazione di giornalisti che, attenendosi alle norme deontologiche, abbiano pubblicato documenti di interesse  generale  pervenuti  loro  in  conseguenza  del  reato  di violazione  di segreto professionale da altri commesso (nella specie, copia  delle denunzie dei redditi di un importante manager francese)” (Corte europea diritti dell’Uomo, 21 gennaio 1999; Parti in causa Comm. europea dir. uomo c. Governo francese e altro; Riviste: Foro It., 2000, IV, 153).

La  Convenzione  europea dei diritti dell’Uomo e le sentenze di Strasburgo rendono forte il lavoro del cronista. Le vicende Goodwin, Roemen e Tillack sono episodi  che assumono valore strategico. Quelle sentenze possono essere “usate”, quando i  giudici nazionali mettono sotto inchiesta, sbagliando, i giornalisti, che si avvalgono del segreto professionale. I giornalisti devono rifiutarsi di rispondere ai giudici in tema di segreto professionale,  invocando, con le norme nazionali (legge n. 69/1963 e dlgs n.  196/2003), la protezione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo nonché le sentenze Goodwin,  Roemen e Tillack della Corte di Strasburgo vincolanti per l’Italia come ha spiegato la Corte costituzionale con le sentenze 348 e 349/2007; 39/2008.. Questa linea è l’unica possibile anche per evitare, come scrive il Tribunale penale di Treviso, di finire sulla graticola dell’incriminazione per violazione del segreto d’ufficio in concorso con pubblici ufficiali (per lo più ignoti), cioè con coloro che, – magistrati, cancellieri  o ufficiali di polizia giudiziaria -, hanno “spifferato” le notizie ai cronisti. In effetti l’eventuale responsabilità, collegata alla fuga di notizie, grava solo sul pubblico ufficiale che diffonde la notizia coperta da vincoli di segretezza e non sul giornalista che la riceve e che, nell’ambito dell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, la divulga. Va affermato il principio secondo il quale il giornalista, che riceva una notizia coperta da segreto, può pubblicarla senza incorrere nel reato previsto dall’articolo 326 del Cp.  E’ palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore. L’articolo 326, invece, punisce solo chi (pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi (giornalista) riceve in maniera pulita e senza contropartite l’informazione e la fa circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la prerogativa del giornalista di non rivelare l’identità delle proprie fonti. Il giornalista, che svela le sue fonti, rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l’evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell’articolo 326 del Cp evita l’incriminazione (assurda) del giornalista per concorso nel reato (con il pubblico ufficiale..loquace) e le perquisizioni,  arma ormai spuntata dopo le sentenze Roemen  e Tillack della Corte di Strasburgo..

Il Codice di procedura penale, in base alla relativa legge-delega, “deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”.  Il Parlamento in sostanza, dopo le tre sentenze della Corte costituzionale appena citate, deve calare nel Codice le sentenze Goodwin, Roemen e Tillack nonché l’articolo 10 della Convenzione, abolendo il potere del Gip di interrogare il giornalista. Finirà la storia dei giornalisti arrestati e condannati perché difendono il segreto professionale anche  come cittadini  europei? L’articolo 200 del Cpp afferma il diritto del giornalista professionista al segreto sulle sue fonti fiduciarie, ma nel contempo autorizza il giudice a interrogarlo sulle sue fonti fiduciarie. Potere, questo,  che fa a pugni con la giurisprudenza   della Corte di Strasburgo e della nostra corte costituxionale. Il Parlamento deve sancire una volta per tutte la regola in base alla quale il giornalista ha diritto al segreto professionale come gli altri professionisti. Punto e basta. Non una parola in più. Strasburgo ha spiegato perché è necessaria ed urgente questa svolta. La Corte costituzionale ha detto che l’Italia si deve adeguare.

                                                                      Franco Abruzzo

PS. L’immagine che correda questo post l’ho presa in prestito dal blog http://emblemasogna.blogspot.com Grazie. E’ per una buona causa!

Pubblicato da Pino Bruno

Pino Bruno

Scrivo per passione e per dovere, sono direttore di Tom's Hardware Italy, ho fatto il giornalista all'Ansa e alla Rai e scrivo di digital life per Mondadori Informatica e Sperling&Kupfer

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