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PEC ovvero Posta Ectoplasmatica e Cabarettistica

Nelle intenzioni del ministro Brunetta, la Posta Elettronica Certificata avrebbe dovuto ridimensionare, se non azzerare, gli intoppi burocratici, le lentezze e le assurdità della Pubblica Amministrazione italiana. In realtà la PEC è snobbata dagli stessi burocrati, innamorati di bolli, timbri e firme, ed è presa poco sul serio dai cittadini, che hanno aderito tiepidamente all’offerta di una casella gratuita. Gli esiti sono talvolta grotteschi ed esilaranti, come nella vicenda raccontata dal giurista Ernesto Belisario, che qui ripropongo.

PEC: siamo alle comiche

“Negli ultimi mesi, la PEC (Posta Elettronica Certificata) è stata al centro di un partecipato dibattito a seguito della scelta del Ministro Brunetta di farne lo strumento preferenziale di comunicazione tra cittadini, imprese e Pubbliche Amministrazioni.

Come i lettori di questo blog ricorderanno, il ricorso alla PEC non mi ha mai convinto appieno; tuttavia la PEC può rappresentare uno strumento per semplificare i rapporti con i cittadini, migliorare la qualità della vita degli utenti e ridurre i costi della burocrazia (sia per il settore pubblico sia per i cittadini).

Le cose, per il momento, non sono andate come era nei piani del Ministro Brunetta: molti sono i professionisti che (pur obbligati normativamente) non hanno attivato una casella PEC e pochi (pochissimi) i cittadini che hanno deciso di approfittare dell’iniziativa del Governo di “regalare” la PEC.

La causa di questo vero e proprio FLOP è da rintracciarsi, prevalentemente, nel fatto che le Amministrazioni non vogliono la PEC: salvo rare eccezioni, gli Enti non pubblicano sui propri siti l’indirizzo PEC, non consentono ai cittadini di presentare istanze e domande per via telematica, ignorano le comunicazioni telematiche di cittadini e imprese.

Tale comportamento è censurabile sotto un duplice profilo:
a) le Amministrazioni che non usano la PEC, continuando a preferire il cartaceo, sono Amministrazioni inefficienti (non cogliendo i vantaggi della dematerializzazione), che sprecano soldi pubblici (ogni comunicazione via PEC costa circa 19 euro in meno rispetto ad una cartacea), discriminatorie (costringono gli utenti diversamente abili al cartaceo e alle code agli sportelli); in poche parole, sono Enti che (in un’ottica ormai anacronistica) perseguono una logica burocratica (“abbiamo sempre fatto così“) e si rifiutano di rendere l’adempimento degli obblighi di legge il più semplice possibile.

b) le Amministrazioni che non usano la PEC violano la legge in modo grave ed inescusabile, ledendo alcuni diritti che sono già (da più di quattro anni) riconosciuti a cittadini e imprese.

Sotto questo profilo, è emblematico quanto accaduto negli scorsi giorni e che ha visto come protagonista il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Questi i fatti: un aspirante agrotecnico inviava domanda di partecipazione all’esame di stato via posta elettronica certificata; dal momento che la modalità telematica non era prevista dall’atto che aveva bandito la prova, il Collegio nazionale degli agrotecnici chiedeva al Ministero per la pubblica amministrazione e, appunto, al Ministero dell’Istruzione se l’istanza fosse correttamente presentata. Il primo a rispondere è stato il dicastero guidato dal Ministro Gelmini che ha categoricamente escluso la possibilità di usare la PEC in quanto l’ordinanza ministeriale non la prevedeva come modalità di inoltro delle domande di partecipazione, aggiungendo che la PEC

è uno strumento il cui utilizzo è ancora in fase iniziale e non è perciò compresa tra i possibili modi di invio delle domande di partecipazione agli esami abilitanti.

La nota del Ministero dell’Istruzione ha destato imbarazzo e scalpore e corre il rischio di vanificare molti degli sforsi fatti in questi mesi per incentivare l’uso della PEC; il Dipartimento della funzione pubblica si è quindi visto costretto ad intervenire sulla vicenda, sostenendo il contrario di quanto affermato dal Ministero dell’Istruzione e preannunciando una circolare “con la quale regolerà l’obbligatorietà di trasmissione tramite PEC di domande di partecipazione a qualsiasi tipo di concorso, ivi compresi quelli relativi alle iscrizioni agli albi professionali“.

In tanti mi hanno scritto per sapere chi avesse ragione in questa “querelle tra Ministeri” (ma non potevano parlarsi tra di loro?); ebbene, non può essere revocato in dubbio che nella nota del Ministero dell’Istruzione vi siano diverse inesattezze. In primo luogo, non è vero che la PEC è uno strumento ancora in fase sperimentale (è stata disciplinata con il decreto n. 68/2005 e, in base al D. Lgs. n. 82/2005, gli Enti avrebbero dovuto dotarsene dal 2006); ma la cosa più grave è che vengono ignorate completamente le disposizioni contenute negli articoli 6 D. Lgs. n. 82/2005 (che ha introdotto il diritto all’uso della posta elettronica certificata) e 48 D. Lgs. n. 82/2005 (che espressamente prevede come la trasmissione di comunicazioni via PEC equivalga alla notificazione a mezzo posta).
Come ho già scritto qualche settimana fa, la PEC è un diritto e quindi i cittadini possono utilizzarla (con le modalità previste dalla legge) senza richiedere un assenso preventivo dell’Ente a cui scrivono.

A livello normativo, la PEC è equiparata alla raccomandata con avviso di ricevimento e, quindi, si può sostenere che la previsione dello strumento “raccomandata” nel bando di concorso, di per sè, implichi la possibilità per il privato di partecipare con la PEC; di fronte ad un provvedimento di esclusione, al candidato non resterebbe che l’impugnativa al Giudice Amministrativo (T.A.R.) per far valere i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere.
E comunque, se anche l’Amministrazione – nel bando – escludesse espressamente l’invio tramite PEC, questa esclusione (limitando la partecipazione) dovrebbe essere adeguatamente e congruamente giustificata; in caso contrario, contro una previsione di tal genere si potrebbe adire il T.A.R..

Qualche mese fa, in una presentazione sulla Posta Elettronica Certificata, avevo parlato di “Fiction della PEC” per provare a descrivere le vicende (normative e amministrative) di questo strumento: una storia fatta di continui colpi di scena e in cui il “lieto fine” sembra allontanarsi sempre di più.

E’ condivisibile, quindi, il disappunto che emerge nella nota del Dipartimento della funzione pubblica; orientamenti come quelli del MIUR sono ormai inaccettabili. Le norme ci sono (da anni) e sono chiarissime: le Amministrazioni non possono impedire l’uso delle tecnologie nei procedimenti amministrativi.
A mio modesto avviso, non sono necessarie circolari (come quella preannunciata da Brunetta): le norme devono essere fatte rispettare, utilizzando tutti i rimedi previsti dall’ordinamento, in primis quello giudiziario.

Se gli Enti non avranno la sensibilità e la diligenza di garantire l’effettività dei diritti digitali, un Giudice sarà chiamato ad ordinarglielo“.

(Grazie a Ernesto Belisario)

Pino Bruno

Scrivo per passione e per dovere, sono direttore di Tom's Hardware Italy, ho fatto il giornalista all'Ansa e alla Rai e scrivo di digital life per Mondadori Informatica e Sperling&Kupfer

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